Con una curiosa coincidenza e un tempismo eccezionale, il successo avuto dalla protesta online condotta contro gli Internet Blacklist Bills (SOPA e PIPA) statunitensi, volti a restringere le libertà di espressione degli utenti, in nome della anacronistica difesa del copyright, avvenuta lo scorso 18 Gennaio, è stato, in men che non si dica, oscurato dalla clamorosa chiusura del network MegaUpload Ltd; comprendente fra gli altri MegaUpload, MegaVideo e MegaPorn. L’operazione, ad opera dell’ FBI, è avvenuta proprio il giorno seguente, il 19 Gennaio.

La vicenda

Il provvedimento di chiusura del network, avvenuto contestualmente al sequestro dei beni della società e all’arresto dell’istrionico fondatore Kit Dotcom e all’arresto o mandato di arresto nei confronti di sei dei suoi collaboratori, è stato deciso dal Dipartimento di Giustizia Statunitense della Virginia e ha coinvolto le forze dell’ordine di Nuova Zelanda, Hong Kong, Olanda, Regno Unito, Germania, Canada, Australia e Filippine. Ad amplificare la portata dell’azione, è da notare come per gli imputati, si tratti di tutti cittadini stranieri residenti in nazioni straniere. All’arresto di Dotcom, avvenuto in Nuova Zelanda, dove risiedeva, e condotto nel miglior stile Hollywood, con ben 76 agenti neozelandesi e elicotteri al seguito, è seguita una puntuale campagna di demonizzazione del paffuto ragazzo, diventato improvvisamente il nemico (peraltro già automaticamente condannato) numero uno del mondo intero. A seguito della vicenda, a firma del gruppo di attivisti Anonymous, sono stati portati avanti numerosi attacchi distribuiti di denial of service verso i siti correlati alla vicenda, come i siti delle major cinematografica e discografica degli Stati Uniti (MPAA e RIAA) o il sito del Dipartimento di Giustizia Statunitense. Per molti commentatori, forse non troppo lungimiranti, non si è trattato altro che di una reazione scomposta, inutile e adolescenziale.

Nei giorni seguenti all’evento, numerosi altri siti operanti con le stesse modalità di Megaupload, sia per quanto riguarda la parte di streaming video, sia per quanto riguarda la parte di file hosting, hanno, in un clima di terrore e, nei casi in cui non hanno direttamente sospeso il servizio, messo mano alle proprie funzionalità, ai propri termini di servizio e provveduto all’eliminazione di contenuti caricati dagli utenti e di account legati a questi ultimi, non si sa bene in base a quali criteri di liceità.

Le accuse

L’accusa principale, intorno alla quale ruota l’intera vicenda, è quella della violazione di copyright, in particolare la non aderenza al DMCA, che permette ai provider di servizi online di essere garantiti nella propria legalità inerente la tutela del copyright a seguito di alcuni precisi comportamenti: come ad esempio l’immediata rimozione di materiale protetto da copyright su segnalazione dei titolari dei diritti. Da questo principale capo di accusa, derivano automaticamente anche l’accusa di riciclaggio di denaro sporco, a causa del modello di business adottato, che permetteva la sottoscrizione a pagamento di account premium e il pagamento di premi agli utenti i cui file risultassero tra i più scaricati, e l’accusa di racket, a causa di alcune limitazioni della fruizione del servizio che, in una certa misura, poteva indurre l’utente a sottoscrivere un account premium a pagamento. Sono stati quantificicati danni per circa 500 milioni di dollari ai titolari di copyright e guadagni per almeno 175 milioni di dollari per Megaupload Ltd. Oltre alle accuse ufficiali, c’è chi maliziosamente evidenzia, nel prossimo lancio da parte di Megaupload di una piattaforma per la distribuzione di musica legale, Megabox (preceduta e pubblicizzata da un controverso video su Youtube, la MegaSong, motivo di controversia con Universal Music Group), tale da garantire agli autori un elevato introito sulle vendite, una curiosa coincidenza.

In questo quadro non è nemmeno da tralasciare il coinvolgimento di utenti, sia autori che fruitori, e in alcuni casi di aziende, che utilizzavano, forse con un pizzico di ingenuità, il servizio nel pieno della legalità e, da un giorno all’altro, hanno visto sparire i propri file ritrovandosi con i propri dati personali e le proprie statistiche di utilizzo del servizio in mano al FBI.

Le considerazioni

L’intera questione va a rimpolpare due questioni spinose particolarmente avverse e percepite come pericolose oltre ogni ragionevole dubbio dall’industria dei contenuti: la nascita, la crescita e l’evoluzione di nuovi modelli di business allineati con l’attuale contesto tecnologico, etico e culturale e la responsabilità dei provider di servizi Internet.

L’attività di Megaupload, infatti, non è per certi versi così diversa, anche se magari portata al limite della legalità e forse oltre, da altri colossi del settore che, secondo uno schema consolidato, forniscono una serie di servizi sui quali guadagnano e che come la maggior parte dei mezzi e degli strumenti possono essere in grado di consentire anche usi al limite della legalità in relazione ai contenuti protetti da copyright. D’altronde di servizi usabili al limite della legalità né è piena anche la controparte reale, ma per quanto riguarda Internet, è fin troppo facile e banale elencare motori di ricerca, piattaforme di video streaming, provider di connettività, social network, provider di hosting web e quant’altro. Certo, alcuni di loro sono parte integrante dell’economia statunitense e hanno il piacere, l’opportunità e la necessità di oliare e contribuire a certi meccanismi particolarmente efficaci nella lobbycrazia più grande del mondo, ma probabilmente, in termini pratici, la differenza fra questi e Megaupload è più piccola di quanto si voglia far credere. Quello del successo di servizi di questo tipo, strettamente inerenti e interconnessi alla condivisione e la fruizione di materiale coperto da copyright in maniera libera, ma non necessariamente gratuita, dovrebbe costituire materia di un’attenta e onesta riflessione da parte dell’industria dei contenuti.

Ciclicamente viene tirato in ballo, fra i tanti, il problema del calo dei posti di lavoro dell’industria dei contenuti, dovuta alla condivisione online di contenuti coperti da copyright, ma viene piuttosto da chiedersi se l’industria dei contenuti non abbia piuttosto paura dell’esatto contrario, ovvero del possibile aumento dei posti di lavoro e del lavoro, magari faticoso, da dedicare allo sviluppo concreto di un nuovo modello di business di cui la maggior parte delle persone, grazie anche all’avvento di Internet e del relativo contesto tecnologico, magari al limite dell’attuale legalità, ma da valutare in maniera ben più lungimirante sul piano dell’eticità e della futura legalità, ha già decretato il successo e ha già integrato nel proprio bagaglio etico e culturale. Certo, l’ attuale strategia basata sulla repressione di libertà che sembra basarsi sulla censura, sul terrore e sulla conservazione di antichi privilegi a discapito degli utenti e delle nuove possibilità di business, garantisce cospicue e facili rendite. C’è da considerare però che, continuando ad ampliare il divario dall’attuale contesto culturale, etico e tecnologico, si corre il rischio concreto che le reazioni scomposte, inutili e adolescenziali diventino composte, utili e mature. Sempre che questo non stia già avvenendo…